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Giuseppe Casa su Trashic Magazine #2 – zona rossa


Abbiamo avuto parecchi feedback positivi sul primo racconto “La porta”, ma qualche lettore ha lamentato difficoltà di comprensione, qualcuno l’ha trovato addirittura un po’ troppo filosofico, ermetico o nichilista.  Prima di pubblicare il secondo racconto quindi volevamo parlare di questo con l’autore.
Ecco la sua risposta:

“Un racconto non é una funzione algebrica da risolvere perchè poi tutto torni chiaro o utile. Se l’oscurità non è voluta o compiaciuta, il discorso ermetico o negativo è la residenza dello scrittore. C’è sempre una certa inclinazione a considerare “un po’ troppo filosofico” quello che non capiamo, perché non riusciamo a identificarci. Il problema dell’identificazione. Un esempio un po’ forzato su come ragionano certi lettori, se uno si chiama Giacomo e non trova un Giacomo nel racconto non capisce niente. Io mi occupo di “situazioni-limite”, che certo sono rare all’interno di una psicologia delle visioni del mondo. Se le mie
formule non danno origine a nulla e perché sono inesistenti dal punto di vista sociale. Non ci sono né domande né risposte, ma si limitano a rivelare lo stupore”.



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Il sole alto all’orizzonte significava che nel pomeriggio sarebbe caduta la neve. Una neve bluastra, per via di certe piante cresciute non so dove, legata ai problemi climatici. Quella mattina ero andato a caccia da solo nella “Zona Rossa”, nella parte vecchia e abbandonata della città. Non so perché la chiamassero così, era una di quelle zone incendiate dove poi era cresciuta ogni sorta di erbaccia. Qualcuno mi aveva raccontato che un tempo ci vivevano le feconde, prima che avvenissero i grandi incendi.  Ma loro avevano cambiato le carte in tavola e anche se avevano cominciato a praticare un edonismo responsabile – meno scarpe, meno diritti fasulli, meno slogan – ormai era troppo tardi e l’uomo non fece nulla per evitare che si estinguessero, e alla fine le feconde erano scomparse del tutto, almeno così dicevano gli Istruttori.

Nella sacca avevo un Blati e due Rometi. La fabbrica che produceva cibo da caccia era in crisi da almeno dieci anni ed era sempre più difficile trovarne.

Fu in quel momento che  qualcosa mi sfiorò la spalla sinistra. Con uno scatto mi voltai e vidi qualcuno che mi fissava. Per qualche stupefatto momento non mi mossi. Una parte di me non era in grado di decidere se stessi assistendo alla visione di un angelo o, forse, a un’allucinazione dovuta alla fame.  

La creatura parlava la mia stessa lingua. Una voce che veniva da ovunque e nessun luogo. Ma non vedevo pericoli. Riposi l’arma nel taschino della mia giacca da caccia. In quel momento provai un forte impulso di prederla, abbracciarla, stringerla, perdermi nella sua pelle. Volevo aggrapparmi a lei come se fosse stato l’ultimo briciolo di ordine al mondo, anche se fosse stata la mia fine.

Non osai guardarla ancora. Avevo paura. Avevo paura che fossi stato io a evocarla, dall’angolo più scuro di un bisogno sconosciuto, e che non esistesse realmente. Com’era possibile che ce ne fossero ancora? Per quale miracolo? Per quale maledizione? Non lo sapevo, e mio padre non avrebbe mai azzardato una teoria a riguardo. All’epoca, l’idea che ne fosse sopravvissuta qualcuna sembrava una verità distante, remota, sepolta nel fondo di una cratere in capo al mondo.

Il resto del giorno fu tranquillo seppure in una certa misura colorato da un intero spettro di supposizioni.

“Qual é il nostro scopo nella vita, papà?” dissi, scrollandomi la neve verde di dosso. Sembrava sbalordito dalla domanda. Era evidente che fosse una di quelle domande che nessuno gli aveva mai posto. Almeno, non di recente. Io ero nato in un laboratorio, con un utero artificiale. 

“Non te l’ha insegnato l’Istruttore?”

“No”.

“Pensi che ogni cosa deve avere uno scopo?”

Le sue parole mi toccarono nel profondo.  Gli occhi incollati al soffitto chiazzato di muffa verde. Qual era il mio scopo? Cacciare Blati, pescare Rometi? Sopravvivere… e aspettare? Aspettare cosa?

“Ci deve essere una ragione, no?”

“Tu, sei la ragione… la tua vita è la ragione”.

Non capivo. Per me stava già sconfinando in altri concetti.

“Non so cosa vuoi dire,” risposi.

“Voglio dire, che la risposta alla tua vita ce l’hai tu, dalla nascita”.

Il ragionamento si complicava.

“È un concetto difficile da capire, non ti pare?” dissi.

Mio padre mi guardava, era chiaramente a disagio.

“Non ti va di stare in silenzio, ogni tanto?”

Questo era il suo approccio pedagogico alla mia formazione. Non dico che non fosse buono. Anch’io certe volte ero stanco delle mie domande sul mondo. Certe volte mi faceva male il cervello a furia di rimuginare. L’Istruttore me l’aveva detto. Ero uno di quei tipi affetto dal disturbo… boh, non ricordavo nemmeno come si chiamasse. Mio padre mi dava pasticche di Felicitade per combattere l’ansia.

Il giorno dopo sono andato a caccia di nuovo. 

Cos’altro c’era da fare? 

La strada era ancora bluastra di neve e il cielo colore dell’acciaio.  A un certo punto sentii un rumore così rapido e vicino ma non riuscivo a capire da dove provenisse. Estrassi l’arma dal taschino e la puntai su una grossa porta divelta e bruciata di un vecchio edificio in mattoni. Sopra c’era ancora un’insegna ormai illeggibile. Forse di una sala bingo o di un supermercato. C’erano in giro carrelli rovesciati e altre invenzioni ormai prive di scopo. Salii su una scala a pioli su un fianco dell’edificio. Sentii di nuovo il rumore. Puntai l’arma. Sapevo solo che qualcosa o qualcuno stava per arrivare.

Come descrivere ciò che vidi?

Era sempre lei, la creatura, stavolta con il cappuccio scuro di una felpa calato in testa, ma i suoi occhi brillavano come quelli di un uccello notturno. Occhi grandi e ipnotici. Il suo corpo era leggero. Le mani agili e sottili.

Avevo ancora il braccio steso, l’arma puntata contro.

L’arma mi cadde dalle mani e la creatura mi avvolse in un abbraccio. Io non reagii. Non mi sforzai nemmeno. Il suo abbraccio era caldo e freddo allo stesso tempo. Non sapevo cosa provare, era una sensazione del tutto nuova per me. Il mio cuore sapeva qualcosa che la testa ignorava. Ma capivo che ero io la sua preda. Poi, mi lasciò andare.

Al ritorno stavolta raccontai a mio padre quello che avevo visto.

“Perché vai a caccia nella Zona Rossa?”

“Non so… una volta mi hai detto che un tempo ci vivevano le feconde… era una feconda, quella che ho visto?”

“Le feconde non esistono più… ma nel mondo sta succedendo qualcosa di brutto, solo che non ci sono le prove”, disse mio padre,  “a parte la neve blu…” poi disse che poteva trattarsi invece di un sogno a occhi aperti. M’ero beccato una forma infettiva d’isteria. Un caso di paranoide-qualcosa. Un criptosogno da manuale, del tipo più pericoloso. Anche lui faceva ogni tanto di questi sogni, ma li smascherava, e poi bonificava la situazione…

“Prendi queste…” disse.

Ingoiai le pasticche.

“Tu hai mai ucciso delle feconde?”

“Io mai, tuo nonno sì, parecchie volte…”

“E perché le ha uccise?”

“Per motivi pratici… c’era una guerra, e loro, le feconde, non erano proprio adatte, anche se molte di loro pensavano diversamente, poi, abbiamo perso la guerra, e tuo nonno ha mangiato una delle sopravvissute”. 

“Mangiato? Perché?”

“Perché c’era fame, più di adesso, e non c’era altro da mangiare?”

Quella notte sognai arterie che zampillavano, spruzzi di sangue nerastro, un caos di interiora e di ossa scheggiate.

Mio padre, prima di uscire di casa, mi raccomandò di indossare guanti e mascherina, la recente pandemia non si poteva inserire nel quadro psicopatologico dei miei disturbi, ma era meglio prendere precauzioni, mi disse anche di stare lontano dalla “Zona Rossa”, e di non tornarci.

Passai il tempo in casa, online con gli Istruttori.

Dopo un po’ cominciai a soffrire le conseguenze della tensione nervosa. Gli Istruttori non servivano a niente. Non avevo imparato nulla. Né mi erano di aiuto le Felicitade che mi dava papà. Vivevo in uno stato mentale del tutto singolare nel quale l’euforia più pura veniva di continuo invasa e arricchita da caotiche correnti di paura.

Mezz’ora dopo ero nuovamente davanti all’edificio.

La creatura era già lì, che mi aspettava. Solo la sua presenza mi dava sollievo. Non parlammo. Il mio rapporto con lei si svolgeva nel rischio perenne di diventare intimi con sfere di natura altamente discutibile.

M’invitò a ballare, ma era una scena senza suono. Eppure riuscivamo a ballare. Danzammo a lungo, abbracciati come in un sogno turbinante di ombre. Continuavo a chiedermi se quello che avevo tra le braccia non fosse che uno spettro della mia follia. Il mondo era pieno di clangore, poi pieno di silenzio, e in quel silenzio l’aria mi fu risucchiata dai polmoni, una pace assoluta calò su di me e mi ritrovai disteso in una fossa senza fondo come se fossi lì da sempre.

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About E. A. Paul

Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, E.A.Paul si trovò trasformato in Enrico Beruschi
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